Roberto Siagri “Dopo Eurotech mi concedo un anno sabbatico”

Roberto Siagri racconta la sua storia e quello che pensa come futuro suo e del settore high tech

Già Ad di Eurotech, azienda che ha fondato nel 1992, e da cui si è slegato solo poche settimane Siagri ha avuto una carriera costellata di successi (tanti) e di sacrifici e ci propone una riflessione su futuro.

“Volevo studiare astrofisica a Padova, poi ho deciso per fisica a Trieste”, dice in questa breve intervista.

Come mai ha scelto la strada dell’IT?

“Eravamo immersi nei calcolatori. Mi imbattei nei microprocessori, questi nuovi calcolatori che stavano nascendo in quegli anni, tra i quali stava emergendo, a metà degli anni Ottanta, anche il personal computer’.

Quali sono stati i suoi primi passi nel mondo del lavoro?

Mi sono trovato dinanzi al primo bivio: industrializzare l’idea, che avevo in testa da tempo, ovvero miniaturizzare i computer, attraverso una mia azienda, oppure farmi assumere da una realtà ben rodata sempre del settore.

Cosa scelse?

La scelta cadde su quest’ultima opzione. In quegli anni si assisteva ai primi vagiti dei calcolatori, anche di quelli a uso domestico come, ad esempio, il Commodore 64.

La cosa che mi attirava era il fatto di poter usare queste architetture standard, soprattutto quelle del PC, per impieghi portatili, non necessariamente da ufficio. Volevo far partire già in quegli anni una società.

Ma decisi di imparare cercando un’azienda che mi assumesse piuttosto che fare impresa.. Fui assunto alla Asem, una delle poche alternative alla Olivetti, in Italia, nella costruzione di PC per uso ufficio.

Vi rimasi dal ‘86 al ‘92. Entrai come progettista fino a diventare direttore tecnico dell’area ricerca e sviluppo.

Poi la prima crisi. Era il 1992, anno in cui la lira italiana fu costretta a uscire dal sistema economico europeo, con il Paese che rischiava un default in stile argentino, con la disoccupazione all’11%.

Come si manifestò la prima crisi del settore IT?

“Arrivarono i cloni americani del personal computer che avevano prezzi concorrenziali. L’azienda per cui lavoravo si ritrovò con il fatturato dimezzato e dovette passare attraverso una ristrutturazione.

Ed è lì che mi ritornò in mente l’idea post universitaria, quella della miniaturizzazione dei pc.

In quell’occasione capì una cosa importante: l’innovazione la devi fare molto in anticipo rispetto a quando ti serve, perché quando ti serve non hai il tempo di portarla sul mercato”.

Quando nacque l’idea di Eurotech?

“Negli Usa stava nascendo il consorzio PC/104 che stava standardizzando un formato di PC miniaturizzato.

Si partì con la convinzione che sarebbero bastati pochi anni per farcela. In realtà non fu per niente facile.

Per realizzare i prototipi ci mettemmo poco tempo, il problema era legato alle vendite. Sono stati 4/5 anni duri.  Resistemmo fin tanto che questa idea cominciava a prendere corpo.

Fummo inizialmente aiutati anche da Friulia con un finanziamento per commercializzare il prodotto.

D’altro canto la società è sempre cresciuta bene – il 40% anno su anno – quando però parti da zero, anche il 40% non è che sia tanto significativo”.

Poi arrivò la concorrenza tedesca alla fine del 1999

“In prossimità del 2000 la concorrenza tedesca si faceva sentire, anche perché in Germania c’era un accesso più facile ai capitali grazie al nuovo segmento della borsa tedesca il Neuer Markt.

Dovevamo trovare una soluzione: o evolverci, trovando delle risorse attraverso il private equity o trovare una exit, ossia vendere. La scelta, chiaramente cadde sulla prima opzione”.

E arriviamo così agli esordi del nuovo millennio

“Abbiamo fatto bene a non vendere e far entrare il fondo di private equity in aumento di capitale.

Nel 2001 ci fu la bolla di internet e il valore dell’azienda tedesca interessata all’acquisto di Eurotech era un decimo rispetto a quello di inizio anno.

Abbiamo continuato a crescere del 40% anno su anno, facendo intanto acquisizioni in Francia, negli Usa e arriviamo così alla fine del 2005, anno della quotazione sul mercato Star in Italia.

Partimmo da 3,6 euro per azione e a dicembre arriviammo a 11 euro. Un successo per l’operazione. Da lì proseguimmo con ulteriori acquisizioni e aumenti di capitale”.

Questo per quel che concerne la parte più squisitamente finanziaria. Per la parte tecnologica?

”L’idea di base restava quella della miniaturizzazione del PC legata al concetto che non contava il costo dell’hardware del computer quanto il costo di sviluppo del relativo software, la criticità era quella.

Conveniva spendere anche di più sull’hardware purché questo consentisse di ridurre i costi di sviluppo del software piuttosto che puntare a ad acquisire un hardware a minor costo che costringa a sopportare costi più elevati per lo sviluppo del codice.

Anche dalle proiezioni appariva chiaro che il costo del codice sarebbe esploso esponenzialmente con il tempo , mentre quello dell’hardware sarebbe calato esponenzialmente nel tempo”.

Poi arrivò la crisi mondiale del 2009…

“Non è stato facile attraversare quella crisi, anche perché il settore industriale fu parecchio colpito.

Per finanziare tutta la parte degli investimenti cedemmo un asset acquistato per due milioni e mezzo di dollari negli Usa nel 2004, nel settore della difesa.

Con quella cessione abbiamo generammo sufficiente cassa: nelle casse di Eurotech finirono 40 milioni di dollari nel 2013.

Abbiamo, così, chiuso tutte le posizioni di debito e avevamo sufficiente cassa per continuare gli investimenti in ricerca sull’internet of things.

Essere un’impresa globale e aver fatto nel corso degli anni delle buone acquisizioni permise di superare quella crisi.

Una crisi annunciata

“A novembre del 2007 andai in Giappone per fare un’acquisizione. Fu allora che i giapponesi mi dissero che stava arrivando una crisi importante.

Al mio arrivo in Italia – cercai di capire come strutturare la compagine societaria per trovarmi nelle condizioni migliori nel caso si fosse manifestata la crisi paventata dai nipponici.

Serviva un socio forte nella compagine societaria. Era l’inizio del 2008, prima di Lehman Brothers, e a giugno arrivò Finmeccanica, che rilevò le quote dei miei soci.

La crisi paventata si manifestò e con questa nuova configurazione si riuscì ad affrontare nel miglior modo possibile la crisi. Cosa significa quanto raccontato?

Che andando in giro per il mondo spesso le cose si capiscono anche prima che succedano. Come disse William Gibson: il futuro è già qui solo che non è equamente distribuito.

Nessuno comunque si aspettava la portata della crisi che sarebbe di li a poco arrivata”.

Ci spiega le dimissioni da Ad di Eurotech, gli impegni e le visioni prossime future

“Volevo già smettere quando avevo 50 anni, poi la crisi del 2008 che durò molto mi portò a perdere quella finestra. Ora che ne ho 60 magari è il momento di farlo. Ed è arrivato il momento giusto.

E’ stato approvato il piano industriale, ed il bilancio, la direzione è tracciata, la società è ben patrimonializzata, c’è un buon management team. Ora bisogna alleggerirsi da tutti questi 29 anni fatti sempre di corsa.

Ora voglio studiare. Anche perché in questi ultimi anni stanno avvenendo cose così interessanti e nuove sulle tecnologie che vale la pena fermarsi un attimo a studiarle.

Per estrazione, sono interessato a conoscere il nuovo che avanza e quando ti rendi conto che cominciano a mancarti degli elementi di conoscenza comprendi che è necessario fermarsi un attimo.

Devo studiare i nuovi sviluppi dei calcolatori quantistici. Poi voglio riuscire a portare a termine un libro sulla produzione digitale che è da qualche anno che mi ero ripromesso di completare.

Quello che è sicuro è che l’innovazione digitale sta cambiando radicalmente il modello economico ed è qualcosa di molto importante e forte che non tutti hanno percepito.

La discontinuità che la produzione digitale creerà rispetto alla produzione industriale non avrà precedenti nella storia dell’umanità.

Adesso ci sono tutte le basi tecnologiche create dal digitale per creare una nuova fase di crescita dell’economia più distributiva e democratica oltre che sostenibile.

Ci sarà meno economia da cowboy e più da astronauta, dove tutto è più sociale, più relazionale, con il tema del possesso che passa in secondo piano rispetto all’uso.”.

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