Qual è il peso degli azionisti sulle performance aziendali?

Quanto è rilevante ai fini della performance aziendale la struttura proprietaria delle imprese italiane quotate?

Quali indicatori di performance sono associati alle caratteristiche degli azionisti che detengono più del 2% di diritti di voto di un’azienda?

Sono due temi affrontati nel nuovo lavoro di ricerca del Centro di Ricerca BAFFI Carefin dell’Università Bocconi redatto in collaborazione con Equita

La ricerca analizza l’impatto delle caratteristiche dell’azionariato sulla performance delle società quotate

Il nuovo paper Bocconi Equita, è stato presentato da Stefano Caselli, Prorettore per gli affari internazionali e Algebris Chair in Long-term Investment and Absolute Return, e Stefano Gatti, Antin IP Associate Professor of Infrastructure Finance.

Sette le classi di azionisti identificati (Associazione/Fondazione, Family Office, Istituzione Finanziaria, Stato, Gruppo Industriale, Persona Fisica e Trust).

Cinque gli indicatori presi in considerazione per valutare la performance:

due di mercato (il prezzo e il beta dell’azione) e tre di crescita (il Return on Equity – ROE, il Return on Net Assets – RONA e la variazione annuale del numero di dipendenti).

La prima parte dell’analisi ha evidenziato che il ruolo dell’imprenditore è cruciale

La percentuale di voto detenuta dalla categoria “Persona Fisica” è positivamente associata al prezzo, al ROE, al RONA e alla variazione dell’organico.

La categoria “Family Office” è associata al prezzo e la categoria “Istituzione Finanziaria” al RONA.

La percentuale di voti detenuti dall’azionista “Gruppo Industriale” è positivamente associata al prezzo e alla variazione del numero di dipendenti.

Per le restanti tre categorie (Associazione, Stato e Trust) non sono state rilevate evidenze significative.

Può un investitore “chiave” (“fulcrum shareholder”) – laddove presente – influenzare la performance?

La risposta è sì confermando l’importanza dell’azionista “Persona Fisica”, nuovamente e positivamente associato a prezzo, ROE, RONA e variazione dei dipendenti.

Quando la categoria “Family Office” è fulcrum, l’associazione è positiva anche con la variazione di dipendenti, oltre che, come già dimostrato prima, con il prezzo.

Quando un “Gruppo Industriale” funge da azionista “chiave”, l’associazione è positiva con il beta (che indica una maggiore rischiosità del titolo), con il prezzo e con la variazione del numero di dipendenti.

Quando lo “Stato” possiede più del 20%, l’associazione è positiva con il prezzo

Quando un “Trust” è fulcrum shareholder, l’associazione è positiva con il prezzo e con la variazione di dipendenti.

Per le categorie “Associazione” ed “Istituzione Finanziaria” non sono state trovate associazioni significative.

Dai dati raccolti si evince che l’assetto proprietario delle imprese italiane è caratterizzato da un alto grado di concentrazione proprietaria e dall’esistenza di azionisti di controllo.

O comunque, da una presenza pervasiva di azionisti con sostanziale potere di voto – e in entrambe le analisi la presenza di un azionista di controllo presenta una associazione positiva con il prezzo e negativa con il beta, indice di una minore rischiosità.

Un azionariato concentrato non è per forza negativo ai fini della performance

La presenza di un imprenditore o di una famiglia proprietaria ha un effetto positivo sui risultati aziendali,

coerentemente con studi precedenti che dimostrano come un azionariato stabile nel tempo sia fondamentale per ridurre i costi di agenzia e per garantire al management il supporto per il perseguimento di strategie di lungo periodo.

Ma quale tipo di azienda quotata vogliamo?

Quale struttura di governance è più adatta a promuovere la crescita e quali azioni sono necessarie per creare un eco-sistema interessante per gli investitoei?O

Le risorse pubbliche necessarie per far fronte all’emergenza non basteranno a risolvere alcune problematiche presenti ormai da anni nel nostro Paese.

Ci riferiamo al debito pubblico, la lentezza nella realizzazione delle infrastrutture e l’incapacità di acquisire aziende straniere.

C’è bisogno di banche, mercati e soprattutto di investitori, che cercano rendimenti reali positivi in un mondo dove la presenza di tassi piatti e prossimi allo zero mette in difficoltà gli investitori istituzionali e il sistema pensionistico e assicurativo ad essi collegato.

Le scelte di politica economica che si profilano dovranno confrontarsi con tre variabili fondamentali come la crescita del PIL, la crescita del debito pubblico e la stabilità delle banche.

Alcune proposte:

capitalizzare in modo generalizzato tutte le imprese perché il rilancio passa attraverso un’azione decisa e capillare di capitalizzazione;

spingere proprietari e azionisti di qualunque tipo di impresa ed esercizio commerciale a investire una parte del loro risparmio nelle proprie imprese;

intervenire sul capitale delle aziende di maggiori dimensioni e su quelle ad alto potenziale di sviluppo;

ancorare il mantenimento della garanzia statale a fronte della concessione del credito bancario ad una logica di capitalizzazione;

aumentare la dimensione delle imprese per permettergli di investire in innovazione, sviluppo e ricerca e per consentire di attrarre talenti e generare indotti e filiere;

consolidare la “diplomazia economica”, centrale per interagire, sostenere e rendere più visibile la politica estera del paese;

attrarre imprese dall’estero con un meccanismo di riduzione dell’aliquota fiscale per un certo numero di anni e subordinato alla crescita, agli investimenti e alla creazione di occupazione.

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