Intervista a Riello. Le fiere? Prendetele come partner

Riello: “Le fiere sempre più partner e consulenti per il business aziendale”. Il fisco che rischia di pesare troppo sui bilanci, le confusioni normative, la politica che sottovaluta le potenzialità del settore: le criticità non mancano. Ma il sistema fieristico italiano – affari per 60 miliardi di euro conclusi ogni anno durante le esposizioni, un volano per l’export e l’internazionalizzazione delle aziende– sta vivendo un momento di ripresa.

Si tratta dell’uscita definitiva dalla crisi? O, invece, per un rilancio occorre rinnovare profondamente il ruolo e i modelli di fiera? È necessario ridurre i poli espositivi, attraverso fusioni e integrazioni, per competere con Germania e Francia? E le manifestazioni locali hanno ancora senso? Btboresette lo ha chiesto a Ettore Riello, presidente di Aefi (Associazione esposizioni e fiere italiane, la più importante del settore).

Domanda. Nel convegno sul quadro giuridico ed economico del sistema fieristico italiano, Aefi ha puntato l’indice contro il pagamento dell’Imu, che porterebbe a pesanti costi aggiuntivi, e contro le incertezze normative sulla partecipazione delle camere di commercio e delle province agli enti fieristici. Avete avuto qualche risposta, qualche chiarimento, da parte del governo?
Risposta. Da tempo dialoghiamo con le istituzioni perché venga compreso il reale valore delle fiere quale leva di politica industriale. Come sottolineato anche durante il Convegno Aefi di inizio maggio, se da un lato il sistema fieristico italiano viene sostenuto – e mi riferisco ai fondi stanziati dal Mise per il Piano straordinario per il made in Italy, rinnovati anche per il 2016 (circa 30 milioni di euro, ndr) – dall’altro rischia di soccombere a causa di una normativa non chiara. In merito all’Imu, se si dovesse mantenere la linea dell’accatastamento delle aree espositive in D/8, uguale a quella dei centri commerciali, una grande fiera dovrebbe accantonare fino a 2 milioni di euro l’anno; per una di medie dimensioni fino a 600 mila euro e per una piccola fino a 250 mila euro l’anno. È chiaro che per le realtà con bilanci vicino al pareggio, l’Imu diventa un elemento di assoluta insostenibilità. Al momento non abbiamo ancora avuto risposte definitive ma, anche a seguito del convegno, molta più attenzione e apertura da parte dei ministeri competenti. Auspico che nel breve ci siano risposte concrete almeno sul tema delle partecipazioni degli enti pubblici nelle fiere.

D. Invece di puntare sull’intervento pubblico, non è meglio, per esempio, il modello francese: proprietà in mano agli enti locali e gestione ai privati?
R. Bisogna innanzitutto avere ben presente il ruolo del sistema fieristico. I nostri dati confermano che le manifestazioni generano il 50% dell’export delle aziende italiane oltre a rappresentare il principale strumento di promozione per il 75% delle imprese industriali e per l’88,5 % delle pmi. E non mi riferisco solo alle grandi fiere, per le quali il nesso con l’export è più evidente. Le esposizioni, tutte, ciascuna con la propria peculiarità, possono svolgere un ruolo fondamentale per rilanciare il nostro Paese, rivitalizzando territori e facendo da incubatori per settori in crescita. Le fiere sono un asset che, come avviene in altri Paesi europei, dovrebbe essere fortemente sostenuto e non penalizzato da interpretazioni normative ambigue come sta avvenendo in Italia. Il sistema fieristico italiano è il secondo per importanza in Europa, ma subisce la forte pressione concorrenziale da parte soprattutto delle rassegne tedesche e francesi, decisamente finanziate dagli enti territoriali. La Repubblica federale ha stanziato 850 milioni di euro per il rinnovamento dei quartieri tra il 2015 e il 2019. La sola Camera di commercio di Parigi sta investendo 500 milioni di euro sul rinnovo del Quartiere storico di Paris Porte de Versailles. I sistemi fieristici tedesco e francese sono dunque fortemente finanziati dagli enti territoriali, poggiano su più che solide partecipazioni pubbliche senza che questo imponga loro di operare in regime di speciali discipline restrittive. Dobbiamo avere la possibilità di competere ad armi pari. Anche per questo, Aefi chiede che quanto prima venga riconosciuta la specificità delle partecipazioni delle Camere di commercio nelle fiere che, proprio per la particolarità e la complessità dell’attività che svolgono, sono “essenziali” e “necessarie per lo svolgimento delle funzioni istituzionali”. È inoltre indispensabile l’assunzione da parte delle regioni o altri enti delle quote delle province. Non solo, auspichiamo inoltre che i comuni abbiano e destinino mezzi sufficienti a sostegno delle proprie partecipazioni.

D. Dalla vostra indagine trimestrale (ottobre-dicembre 2015), emerge un quadro in ripresa, con la crescita di manifestazioni (+23%), di espositori (+23%) e visitatori (+62%). Eppure la congiuntura negativa – le aree sono calate di 1,5 milioni di metri quadri dal 2006 al 2015, gli espositori sono 20 mila in meno, i visitatori sono passati da 13,5 a 10 milioni (dati Cermes- Bocconi) – non sembra essere terminata. I poli di Brescia, delle Marche e di Messina hanno chiuso, la Fiera di Reggio Emilia e quella di Roma sono in concordato, Bari sta tentando il rilancio con l’aiuto di Bologna, che, a sua volta, punta alla holding regionale per trovare le risorse per ripartire. Si tratta, secondo lei, degli ultimi colpi di coda della crisi o l’uscita dalle difficoltà è ancora lontana?
R. Certamente gli effetti della crisi hanno influito anche sul nostro settore. I segni di vitalità e l’avvio della ripresa evidenziati dall’osservatorio congiunturale sono soprattutto ‘merito’ delle realtà che hanno saputo innovare e investire nelle attività di supporto all’internazionalizzazione. Per poter continuare nel loro processo di sviluppo e di sostegno alle imprese, da un lato le esposizioni devono proseguire nella ricerca e nell’offerta di soluzioni e servizi innovativi, modificando i format per adattarsi e anticipare i trend e le esigenze di operatori e visitatori, dall’altro è necessario che le istituzioni prendano coscienza che le fiere rappresentano uno strumento strategico per lo sviluppo della politica industriale del Paese.

D. Quali sono, a suo avviso, le soluzioni perché ci sia una vera ripresa del sistema fieristico dalla crisi? Ci sono troppi poli, non coordinati da un piano nazionale delle fiere, e quindi ‘occorre’ una stagione di ulteriori chiusure e/o fusioni? Oppure il modello tradizionale di fiera va radicalmente cambiato nell’epoca dei social network e delle stampanti in tre dimensioni?
R. Da anni sottolineo la necessità di “fare sistema” per valorizzare l’intero comparto. È sempre più necessaria una compattezza associativa, un gioco di squadra in cui tutti seguano le stesse logiche e lavorino per interessi comuni. Il nostro Paese è tra quelli che più in Europa vanta un’eterogeneità di organizzazioni fieristiche. Questo è certamente un valore che va preservato, sia per l’intero sistema sia per i territori perché abbiamo realtà in grado di rappresentare comparti e aziende di grande varietà. Tuttavia è vero che in alcuni casi un processo di aggregazione potrebbe amplificare il ritorno offerto al mercato e al territorio. Le possibili dinamiche di integrazione e accorpamento non sono certo semplici, ma laddove si riuscisse a creare o identificare condizioni favorevoli a questo tipo di processo, Aefi le guarderebbe e analizzerebbe con interesse, favore e spirito costruttivo per l’intero comparto. Le fiere sono sempre meno spazi fisici in cui esporre e sempre più partner e consulenti per il business delle aziende, in grado di accompagnarle nella definizione di strategie tailor made su ciascuna impresa. Tecnologia, web e social media rappresentano inoltre un mezzo dalle grandi potenzialità, sempre più strategico e sinergico per dare slancio al business delle imprese. (L.F.)

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